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43041 Bedonia PR

Calice

Calice

Calice Bedonia PR

Parrocchia Sant’Apollinare

Festa Patronale

Orario Celebrazioni

Oratorio Beata Vergine del Rosario – Ponteceno


Un po’ di Storia

II visitatore occasionale o l’escursionista, cui capita di passare per Calice o di scorgerlo in lontananza degradare idolcemente fino alla Chiesa adagiata su di un pianoro, non può sospettare le sue origini: che un paesino di montagna come quello affondi le sue radici in piena epoca romana (in verità anche Cap. Boccia in “Viaggio ai monti di Parma – 18,  pag. 167, si limita a notare le 113 anime, spendendo poche righe a delimitarne i confini).

A conferma delle origini un cippo funerario (cm 37x 64×21) con scolpite due figure (una maschile e l’altra femminile, distinguibili dall’abito), purtroppo private delle teste, con iscrizione alla base.

Lo studioso Ubaldo Formentini, su segnalazione del Prof. Romeo Musa, ha cercato di interpretare l’iscrizione, del resto alquanto mutila, formulando varie ipotesi.

Secondo il suo punto di vista “sembra abbastanza chiaro il senso generale dell’iscrizione, la quale direbbe che il soggetto raffigurato nella pietra, il cui nome si legge senza difficoltà, è di genere femminile.

«AVENTIA C(ai) F(ilia), ha disposto per codicillo COD(iciliaria) PR(raescriptione) la costruzione del presente sepolcro per il marito defunto e per sé».

Ritenendo sufficiente la presenza del cippo funerario d’epoca romana risalente al II secolo d.C. per attestare l’antichità di Calice (chi desidera una maggiore conoscenza può consultare La Giovane Montagna, Nn 2-3, 1937), va ricordato come nella parte alta del paese sorgesse una Rocca, di cui si ignora l’anno di fondazione, ma di cui si ha memoria scritta del 1207. Si può quindi dedurre che sia stata costruita nel X-XI secolo come difesa e sicuro rifugio contro le scorrerie degli Ungari.

L’autorità vescovile di Piacenza, proprietaria di un ottavo del Castello e della corte di Calice, affidava tale parte a Pagano Granelli, figlio di Rolando, del Comitato di Calice, finché nel 1378 due delle otto parti, con altre proprietà del comitato, sono date in affido ad Angelo della Cella di Val d’Aveto .

Si ha notizia che nel 1408 Pietro Malaspina di Mulazzo abbia venduto il feudo di Calice (v. Carteggio Fondo Landi, Busta 160). Nella raccolta di Documenti appena ricordata, nell’anno 1441, vi sono «carteggi concernenti le famiglie ‘‘Luxiardo e Granelli». Gli ultimi proprietari, ricorda il Molossi, furono i Leggiadri-Gallani.

Sotto l’aspetto religioso, si è indotti a pensare che il Cristianesimo a Calice sia arrivato sulle vie romane battute da lì a poco, in epoca bizantina, attraverso distaccamenti dell’esercito dell’esarcato insediato in S. Apollinare in Classe, Ravenna.

I soldati potevano giungere ed insediarsi nel castrum de Carice per contrastare Goti e Longobardi e diffondere nel contempo le prime conoscenze cristiane.

È difficile valutare la consistenza e la qualità di quella prima evangelizzazione. Senza dubbio, l’opera missionaria dei Monaci di S. Colombano ha gettato le basi di una evangelizzazione stabile ed organizzata, che coinvolgeva singoli e società, sia sotto il profilo religioso che socio-economico della Curtis de Carice, nell’alto medioevo; dipendente dall’abbazia di Bobbio, prima  e dal Vescovado poi. La Corte di Calice – scrive il Formentini – è ricordata primariamente nella Carta di Wala fra l’833 e l’835.

È opportuno ricordare come, presso il Fondo Landi, la Pergamena N° 1 attesti che l’imperatore Lodovico, dietro richiesta dell’abate Ermenrico, del monastero di Bobbio, il 2 febbraio dell’865, confermasse al detto monasterola proprietà dei beni già concessi da Lotario (fra gli altri figura anche Carice).

Il 7 ottobre 860 Lodovico Il con diploma stabilisce, in controversia fra Vifredo da Piacenza e il Monastero di S. Colombano, i confini del «monte» Carice: si parte a levante da una «serra», forse una chiusura artificiale, scendente dal monte Maggiorasca, su cui sta fisso un termine, si percorre lo spartiacque, fra la val Ceno e la Val d’Aveto, fino al monte Tomarlo e ai piedi del monte Cudule (m. Chiodo?), e da qui, per «rivum Modicum», si discende nel Ceno.

L’ordinamento agrario della tenuta è ben documentato dalle due adbreviationes degli anni 862 e 883, nelle quali si descrivono le proprietà dell’abbazia di S. Colombano. In tali anni la corte di Calice costituiva una cella governata da un monaco inviato dalla comunità: un tratto della proprietà era in tenuta diretta del monastero e comprendeva terreni a grano per 30 moggia di semente; rendeva inoltre 6 anfore di vino, 30 carrate di fieno, 30 libbre di olio e 6 moggia di castagne.

Questa era la parte “dominica” della Corte, unita al centro cortense dov’era la cappella in honorem sancti Apollinaris (ricordata nelle citate adbreviationes del secolo IX) che è l’odierna parrocchiale più volte ricostruita sul luogo in cui sorgeva la primitiva: era coltivata con l’opera di servi e domestici e con l’impiego dei servizi obbligatori dovuto dai livellari della corte con il concorso delle loro famiglie e dei loro animali da lavoro.

Infatti un altro tratto della tenuta era distribuita a 19 livellari che corrispondevano complessivamente al monastero il quarto del prodotto del grano, pari a 159 moggia, 6 soldi e 6 denari, 33 polli, uova in quantità non specificata, e prestavano 19 settimane di lavoro sulla terra dominicale.

La corte comprendeva una tenuta boschiva e pascolativa, “mons qui appellatur Carice”, destinata, salvo qualche probabile zona riservata agli usi comuni di pascolo, legnatico e caccia, di tutta la comunità cortense.

Nell’ordinamento diocesano di Bobbio dopo il 1014, la Chiesa di Calice ebbe funzione e titolo di Pieve; e col titolo di Pieve la troviamo elencata nell’”Extimum Cleri Bobiensis” del 1369 conservatoci nel Registro Campione della Mensa Vescovile.

In quell’elenco medesimo sono enumerate le cappelle dipendenti dalla pieve: S. Maria de Druscho, S. Maria de Rocha, S. Maria Magdalena Vallis Avanti, S. Johannis de Gisiola, S. Bartholomei de Ricloso, S. Laurentii vallis Lechae, S. Justinae vallis Lechae, ecclesia de domo Salvatichae, S. Johannis de Seneta.

La pieve di Calice, così come aveva alla sua dipendenza buona parte della Val Ceno e una parte notevole anche della Val di Lecca, aveva anche in Val d’Aveto S. Pietro di Torrio con gli annessi di Ascona e S. Stefano, di cui era prima titolare S. Maria Maddalena, e si estendeva fino a Caregli e Borzonasca.

Nel «carteggio» del Fondo Landi (Busta 14) si legge che il Vescovo di Bobbio, Bernardini Illicino, abbia emanato nel 1590 un editto riguardante la Pieve di Calice.

Sarebbe interessante poter consultare tale documento specialmente in rapporto al passaggio del titolo di «pieve» da Calice a Drusco, avvenuto per trasferimento di abitazione del rettore ed arciprete don Antonio M. Beati, che inizialmente, dal 1853 era parroco di Calice, e nella Visita Pastorale del 5 maggio 1606, fatta dal vescovo Mons. Aulari, alla pieve di Drusco, lo stesso Beati risulta ormai essere Parroco di Drusco. «Nello stesso giorno, al pomeriggio, il Vescovo si è recato nella chiesa di S. Apollinare, sotto la giurisdizione della Pieve di S. Maria di Drusco».

In quell’editto ci potrebbero essere delle direttive a cui i Calicesi dovevano attenersi, o delle intimazioni da attuarsi in tempi stabiliti, che i destinatari possono aver disatteso, volutamente o meno, e ciò ha indotto l’autorità ecclesiastica al trasferimento del titolo o, almeno, a convalidarlo una volta avvenuto.

II vescovo Mons. Manara con decreto del 7 dicembre 1722, staccò dalla Pieve di Druso Calice, Casalporino e Romezzano erigendole a parrocchie autonome.

Il Duca di Parma, Francesco I Farnese, non solo diede l’assenso per le nuove parrocchie, ma ne costituì la dote in 50 staia di frumento, che l’Agente camerale di Compiano contribuiva ogni anno ai tre parroci di Calice, Romezzano e Casalporino.

L’arciprete di Drusco, a sua volta, ne riscuoteva 12 staia dal rettore di Calice, 12 da quello di Romezzano e 16 da quello di Casalporino.

Su queste tre parrocchie da loro dotate, i Duchi di Parma avevano il diritto di patronato, decaduto probabilmente con l’unità d’Italia.

La chiesa, con uno svettante campanile (che custodisce un’antica campana rifusa nel 1606, colpito da un fulmine il 16 aprile 1931) è più che sufficiente per accogliere le poche decine di persone, che abitano lassù. Custodisce nell’abside una ricca ancona seicentesca di gusto cremonese, che fa da cornice ad una pregevole statua in legno, del titolare, S. Apollinare (cm. 160), che si festeggia il 23 luglio. Al vertice dell’ancona troneggia il busto raffigurante l’Eterno Padre, mentre i lati sono formati da due cariatidi.

Nella prima cappella a sinistra un quadro ad olio, rappresenta la Madonna di Caravaggio, opera attribuita a certo Piola, ma di fatto eseguita da Giovanni Riccò nel 1845 e donata a questa chiesa dalla duchessa Maria Luigia.

Fra le altre varie opere degne di nota, oltre il cippo funerario, di cui si è detto, vanno ricordati due pilastrini del XVI secolo in marmo bianco (cm. 65x25x9), sul fronte portano due paraste decorate a figure grottesche con capitelli a tre foglie di alloro; fungono da sostegno ad un armadietto, che custodisce il Fonte battesimale, eretto nel 1934.

All’estrema propaggine del territorio di Calice che arriva a Ponteceno è stata eretta negli anni ’70 una cappella dedicata alla Madonna del S. Rosario.

Calice, come tanti paesi di montagna, ha visto molti dei suoi figli, emigrati sia in Italia che all’estero, rendergli onore con la propria attività, una seria professionalità e profonda «memoria» della loro origine. In particolare Calice ha visto tre fratelli che lo hanno reso famoso: il Dott. Severino, il Prof. Romeo e don Enrico Musa, parroco prima a Montarsiccio e poi a Codogno, dove morì il 26 gennaio 1967, pastore stimato ed apprezzato dalla popolazione e dai confratelli.

II Dott. Severino Musa, oltre all’apprezzata professione di medico, si appassionò caldamente alla ricerca di archeologia locale, rinvenendo e collezionando preziosi e significativi reperti, tra i quali una «Venere paleolitica» proveniente da Prato di Bedonia (1954), «saiette», ceramiche… come è dato vedere nella Sala Archeologica, inaugurata presso il Seminario di Bedonia il 10 luglio 2000, e giustamente dedicata al Dott. Severino Musa, alla presenza del figlio Dott. Flaminio.

Il Dott. Severino ha pure collaborato con i suoi scritti alla pubblicazione di articoli specifici sul «Bollettino Storico Piacentino»; fra le sue opere: «Il Castello di Montarsiccio».

Lasciando ad altri il confronto tra i tre fratelli, certo è che il più fantasioso, arguto, dotato di grande versatilità, ricco di risorse nell’affrontare le varie vicissitudini della vita per saperle sfruuttare come opportunità per esprimere la sua creatività, è il Prof. Romeo, incisore, pittore, narratore, e poeta dialettale arguto e divertente.

La preziosa produzione, che costituisce praticamente l’OPERA OMNIA del Prof. Romeo, è custodita presso il Seminario di Bedonia, cui è stata donata dagli eredi, esposta in tre sale e nel corridoio adiacente.

La descrizione delle opere e la biografia (dei due illustri fratelli Severino e Romeo) è rinviata necessariamente al libretto-guida di Bedonia, Santuario, Seminario e dintorni, a cura di Cattaneo-Fornari; più diffusamente, per il Museo Musa, è possibile consultare il volume catalogo Romeo Musa, pittore, xilografo, scrittore (1882-1960).

Tanto frutto d’ingegno, intelligenza, dedizione alla ricerca, all’insegnamento, all’arte, che costituisce un prezioso patrimonio da affidare alle generazioni presenti e future, non fa che accrescere la struggente nostalgia nel vedere l’antico Calice, ricco di storia e di vita, agonizzare nella crescente solitudine interrotta da sussulti di tentata rivincita nel breve periodo estivo, ravvivato dalle feste (fra le quali quella del Ss. Nome di Maria, che si celebra nella seconda domenica di settembre) e dagli incontri degli emigrati con i residenti.